
MOLESTIE SUL LAVORO: PER IL LICENZIAMENTO È SUFFICIENTE LA DEPOSIZIONE DELLA VITTIMA
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- On Aprile 10, 2025
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Importante sentenza che intende scardinare il concetto di “vittimizzazione secondaria” ritenendo che non esiste un comportamento ideale dopo una molestia e che questo, comunque, “non costituisce per nulla elemento escludente la verità della molestia patita”.
La Corte d’Appello di Torino ha accertato e dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un lavoratore accusato di molestie sessuali ai danni di una collega e che in primo grado era stato reintegrato nel posto di lavoro e risarcito per lite temeraria.
I FATTI
Un lavoratore con mansioni di operaio addetto alla reception presso l’Università degli Studi di Trieste, il 12/05/2023 era stato licenziato per giusta causa dopo che il 7/04/2023
aveva ingiustificatamente abbandonato, lasciandola incustodita, la propria postazione di lavoro, era stato sorpreso «in grave e visibile stato di ebbrezza» dopo avere partecipato alla festa di pensionamento di un collega […] e avervi bevuto vari bicchieri di vino, e aveva «posto in essere comportamenti di gravissima molestia fisica nei confronti della Sua collega abbracciandola e baciandola sulla bocca contro la sua volontà, formulando frasi quali “che bella donna che sei” e affermando che la sig.ra le piace e che è innamorato di lei.
LA SENTENZA DI PRIMO GRADO
Il Tribunale ha ritenuto infondata e non provata la giusta causa ritenendo inattendibili e false le testimonianze rese e insussistente l’effettiva e rilevante condotta di abbandono del posto di lavoro così come descritta e sanzionata dall’art. 48, par. A), lett. d), del ccnl.
Avverso la sentenza di primo grado la collega ha promosso ricorso in appello.
IL RICORSO IN APPELLO
La donna nei motivi di ricorso ha lamentato che il primo Giudice:
- aveva fatto malgoverno delle prove testimoniali ritenendo erroneamente inattendibili le predette testi, nonostante nessun profilo tra quelli indicati fosse tale da mettere seriamente in discussione la veridicità delle loro deposizioni;
- aveva considerato disciplinarmente irrilevante l’abbandono ingiustificato della postazione di lavoro, nonostante non avessetrovato riscontro probatorio che il lavoratore, benché recatosi senza autorizzazione in altro locale non attiguo (ove era in corso il ricevimento del collega pensionando), sarebbe stato comunque in grado di accorrere prontamente nella portineria di adibizione in caso di necessità.
Il lavoratore si è quindi costituito insistendo sulla carenza e sulla falsità delle prove in ordine alle condotte illecite contestategli ed ha chiesto la conferma del provvedimento reintegratorio e risarcitorio adottato in primo grado.
LA SENTENZA D’APPELLO
Nelle motivazione della sentenza, il collegio si è soffermato sulla condotta riguardante la “gravissima molestia fisica nei confronti della Sua collega”, accantonando sia la contestazione relativa allo stato di ubriachezza del lavoro (non oggetto di specifico motivo d’appello), sia quella relativa all’abbandono della postazione di lavoro.
Con riferimento alla citata condotta, la Corte d’Appello ha rilevato che
la teste ha pienamente confermato l’episodio di molestia occorsole il 7/04/2023 nel senso e nel contenuto poi trasfusi nella lettera di contestazione disciplinare; si tratta, oltretutto, di un’ordinaria causa civile, in cui (a differenza del processo penale, ove, per via dei diversi valori in gioco, si reputa di norma opportuno che la testimonianza della persona offesa trovi una qualche corroborazione esterna) la deposizione di un teste è di per sé sufficiente quale prova dell’accadimento ‘storico’ di un determinato fatto”. Dunque, “La deposizione regge, e regge da sola.
Diversamente, il Giudice di primo grado aveva ritenuto che la testimonianze della lavoratrice non fosse credibile per
non avere chiesto aiuto al personale di sorveglianza subito dopo le molestie, di essere ciononostante rimasta sola per qualche minuto con il collega molestatore e di avere serbato un comportamento omissivo e quasi “rassegnato”.
A parere della Corte d’Appello
Il comportamento che una vittima di molestie a sfondo sessuale possa tenere dopo il loro accadimento – e, nella fattispecie, non avere subito chiesto aiuto al personale di sorveglianza, avere avvisato qualche giorno dopo invece che nell’immediato, avere ulteriormente tollerato l’atteggiamento del collega, essere rimasta ancora pochi minuti sola con lui, ecc. – non può riverberarsi retrospettivamente sulla (e inficiare la) veridicità dell’evento presupposto quand’esso sia stato confermato testimonialmente; se non a pena, per le persone coinvolte in episodi del genere, di non essere pregiudizialmente credute, come ancora diffusamente accade a quante rimangono oggetto di attenzioni sessuali indesiderate.
Ed aggiunge,
ha perciò ragione l’appellante quando lamenta la colpevolizzazione della vittima, ossia l’«emergere [di] una sorta di pregiudizio – che faceva parte di un passato remoto e sinceramente auspicavamo non esistesse più – circa quello che, secondo il Giudicante, avrebbe dovuto essere il comportamento della dipendente nel momento in cui si è trovata essere vittima di condotte moleste, fisiche e verbali».
In sostanza non esiste un contegno post-evento tipico e ‘ideale’e questo, da solo, non costituisce per nulla elemento escludente la verità della molestia patita.
Secondo il collegio, dunque,
la versione della donna gode di veridicità e quanto da lei confermato integra l’ipotesi tipica della molestia sessuale – che l’art. 26, co. 2, d.lgs. n. 198/06 ravvisa proprio in «quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice» – e integra altresì l’illecito disciplinare previsto e punito con il licenziamento senza preavviso dall’art. 48, par. B), ccnl di settore, allorché il dipendente si renda responsabile di «azioni checostituiscono delitto a termine di legge».
La Corte d’Appello ricorda anche come la Suprema Corte, in un caso analogo, abbia
richiamato la sufficienza dell’«obiettiva offensività della condotta [che è] da valutare per la volgarità dei gesti compiuti [dal lavoratore] nella prospettiva del datore di lavoro che viene a conoscenza di simili “attenzioni” verbali e fisiche verso le proprie dipendenti, nonché per la contrarietà alle basilari norme della civile convivenza e dell’educazione» (Cass. n. 27363/23), che mina inesorabilmente il vincolo fiduciario tra datore e prestatore e ne impedisce la prosecuzione del rapporto.
La Corte, dunque, ha accertato e dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa e revocato la condanna al risarcimento del danno per lite temeraria.
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