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LAVORO: SE L’AMBIENTE È STRESSOGENO LEGITTIMO IL RISARCIMENTO

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  • On Luglio 17, 2024
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Con la sentenza 7 giugno 2024, n. 15957 la Corte di Cassazione ha chiarito che un “ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, inoltre la salute deve considerarsi uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e non la “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”. 

Le Condotte reiterate nel tempo da parte del dirigente scolastico e consistenti in comportamenti ostili di carattere discriminatorio e persecutorio, da cui era conseguita la mortificazione morale e l’emarginazione nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi del suo equilibrio psico-fisico e della sua personalità”, sono le motivazioni della richiesta di risarcimento del danno per le vessazioni datoriali subite da un’insegnante. 

L’AMBIENTE DI LAVORO STRESSOGENO

Degli obblighi stringenti da parte del datore di lavoro relativamente all’ambiente lavorativo ci eravamo occupati già nella nostra rubrica su FocuSicilia, richiamando la sentenza n. 2084 del 19 gennaio 2024 della Corte di Cassazione, con cui gli Ermellini hanno affermato “il principio secondo cui l’obbligo del datore di lavoro teso a garantire ai propri dipendenti un ambiente di lavoro salubre, non si limita ad impedire che questi ultimi siano vittime di mobbing ma si estende sino ad evitare che si verifichi qualsivoglia situazione di stress da lavoro”.

I FATTI

Anche nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 15957/2024, l’ambiente lavorativo ostile è al centro della domanda dell’insegnante. In particolare, nel caso di specie, la Corte d’Appello di Bologna ha rigettato il gravame proposto dall’insegnante avverso la sentenza del Tribunale di Forlì, che aveva respinto il suo ricorso, volto ad ottenere il risarcimento del danno per le vessazioni datoriali subite.

La Corte territoriale, richiamando la giurisprudenza di legittimità sul mobbing e sullo straining, ha considerato generiche le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo in ordine alla persecutorietà della condotta di colleghi e superiori, ed insussistente la relativa prova”

Il giudice di appello ha quindi rilevato che dalla sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì era emerso il mancato assolvimento, da parte del Ministero, dell’onere probatorio relativo alla sussistenza di ragioni che legittimassero il trasferimento per incompatibilità ambientale della lavoratrice, poi annullato.

Il Tribunale di primo grado aveva infatti affermato che le difficoltà relazionali erano imputabili anche alla lavoratrice e, a riprova dell’esistenza di un difficile clima lavorativo e di un degrado dei rapporti professionali aveva evidenziato che una prima sanzione disciplinare nei confronti della medesima era stata annullata per vizi meramente procedurali, mentre altre due sanzioni disciplinari erano state confermate.

IL RICORSO IN CASSAZIONE

Avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione, contro il quale il Ministero dell’Istruzione ha resistito con controricorso, affidato a tre motivi:

  • Con il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32 e 35 Cost, nonché degli artt. 2087 e 2049 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ., in particolare, la ricorrente critica la sentenza impugnata per avere ritenuto generiche le allegazioni relative alla condotta persecutoria da parte di colleghi o superiori ed insussistente la relativa prova. La lavoratrice evidenzia, invece, che le condotte sono state reiterate nel tempo da parte del dirigente scolastico e consistenti in comportamenti ostili di carattere discriminatorio e persecutorio, da cui era conseguita la mortificazione morale e l’emarginazione dell’insegnante nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi del suo equilibrio psico-fisico e della sua personalità.
  • Con il secondo motivo di ricorso denuncia, tra l’altro, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32 e 35 Cost, nonché degli artt. 2087 e 2049 cod. civ. e 115 cod proc. civ. in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ. e evidenzia che la sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forli aveva dichiarato l’illegittimità del trasferimento per incompatibilità ambientale della ricorrente disposto dal dirigente scolastico nel 2005.
  • Con il terzo motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32 e 35 Cost, nonché degli artt. 2087 e 2049 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4 cod. proc. civ. e evidenzia che la Corte territoriale ha ritenuto generiche ed irrilevanti le richieste istruttorie della parte ancorché contenessero precisi riferimenti spazio – temporali e fossero volte a dimostrare il protrarsi delle tensioni, dell’ostilità e della conflittualità del contesto lavorativo.

LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE

Con sentenza 7 giugno 2024, n. 15957 la Corte di Cassazione,ha ritenuto il ricorso fondato.

Infatti, “per consolidato orientamento degli Ermellini la nozione di mobbing e quella di straining sono di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. (relativo alla tutela delle condizioni di lavoro e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. n. 32257/2019).

Secondo gli orientamenti maturati è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684), a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, li tutto secondo un assetto giuridico pienamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 cod. civ. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 cod. civ. per li caso di dolo; è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164)”.

LA TUTELA DELLA SALUTE

La Corte ha chiarito che “un “ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 cod. civ. (vedi, tra le altre: Cass. 7 febbraio 2023 n. 3692 e nello stesso senso: Cass. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022)”. Inoltre, “per l’applicazione dell’art. 2087 cod. civ. si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41Cost.) ovvero per il datore di lavoro pubblico le esigenze organizzative e i limiti di spesa”.

LA DEFINIZIONE DI SALUTE

Prosegue la Cassazione precisando che: “L’elemento di base è rappresentato dalla adozione come definizione di salute non è quella di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma quella di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia – a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – e che è stata espressamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lettera o) del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

La sentenza impugnata non è conforme a tali principi perché: “ha ritenuto le difficoltà relazionali imputabili anche alla ricorrente senza considerare che l'”ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie pur se non necessariamente viene accertato l’intento persecutorio che unifica tutte le condotte denunciate (come richiesto solo per li mobbing) ancorché apparentemente lecite o solo episodiche; inoltre, senza operare una precisa e completa ricostruzione del fatto, ha dato atto dell’annullamento del trasferimento della ricorrente per incompatibilità ambientale (che, ad avviso della Corte d’appello, risulterebbe dalla sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì, richiamata senza alcun chiarimento della relativa della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni ivi svolte e senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame) e dell’annullamento di due sanzioni disciplinari irrogate alla medesima, senza esaminare tali condotte nel contesto complessivo della condotta datoriale”.

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