Lavoro e licenziamento: quando fedeltà e diritto di critica si scontrano
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- On Maggio 5, 2022
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I fatti risalgono al 22 giugno 2012 quando un dirigente d’azienda aveva inviato una messaggio telematico alla propria datrice di lavoro che così recitava: “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”. Ben poco sappiamo del contesto in cui la frase sia stata scritta ma in seguito a questo comportamento l’uomo è stato licenziato e i Giudici (di merito e del diritto) hanno ritenuto il messaggio sufficiente a determinare la giustificatezza del licenziamento, escludendo il recesso arbitrario del datore di lavoro.
La vicenda arriva in Cassazione dopo due gradi di giudizio di merito: la Corte d’Appello bolognese, confermando la decisione del primo giudice, aveva ritenuto che la «missiva telematica, pur non integrando la giusta causa di licenziamento, consentiva di ritenere configurata, alla luce del ruolo apicale e della conseguente intensità del vincolo fiduciario, la nozione di giustificatezza [….] con conseguente debenza dell’indennità supplementare».
L’ordinanza della Corte di Cassazione
La Suprema Corte si esprime invece con l’ordinanza n. 2246 del 26 gennaio 2022 che, tuttavia, pone interrogativi e domande a cui non sembra sia stata data adeguata risposta.
Ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente, infatti la Cassazione chiarisce che «non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale [….] idonea a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza di poteri attribuiti al dirigente; sicché assume rilevanza qualsiasi motivo che sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, il recesso».
Nel merito molti commentatori della giurisprudenza giuslavoristica appaiono in massima parte favorevoli alla decisione dei Giudici.
Ma restano comunque degli interrogativi irrisolti.
La differenza tra giusta causa e giustificatezza del licenziamento
Il perno “giuridico” della questione ruota sulla distinzione tra “giusta causa” e “giustificatezza” del licenziamento. La prima nozione trova fonte legale nell’art. 2118 del c.c.; la seconda, di fonte collettiva, è stata introdotta dalla contrattazione degli anni 70 per limitare il potere datoriale, fino a quel momento illimitato, di licenziare il dirigente “al cenno” (o, come più frequentemente si usa dire, “ad nutum” ossia un licenziamento intimato al dipendente senza che questi possa opporsi e senza che l’eventuale motivazione abbia rilevanza giuridica.
Tutto il focus della questione si incentra quindi sulla nozione di giustificatezza, che non coincide con quella di giustificato motivo (previsto dalla L. n. 604/1966) né con l’obbligo di fedeltà (previsto dall’art. 2105 c.c.) e mira ad escludere l’intento discriminatorio da parte del datore di lavoro, la cui prova – diversamente da quanto avviene per i ruoli operai e impiegatizi – viene posta a carico del dirigente licenziato. In presenza di intento discriminatorio si ha infatti la nullità del licenziamento del dirigente per giusta causa, ove sia provato che lo stesso sussista e/o ne costituisca il motivo unico e determinante (Cass. 16 agosto 2018, n. 20742).
Se invece vi è “giustificatezza” del motivo di licenziamento, anche se non sorretto da giusta causa si determina la perdita del posto di lavoro, a fronte del (mero) pagamento di un’indennità supplementare, che varia secondo l’anzianità aziendale del dirigente.
Ora da tempo la Suprema Corte ha affermato che “la valutazione dell’idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione” (Cass.11 marzo 2019, n. 6950) quindi è comprensibile che l’ordinanza in questione non spenda molte parole sulle “ragioni apprezzabili” che hanno indotto i Giudici di merito a ritenere che il messaggio contestato giustificasse il licenziamento intimato.
Il dubbio sul percorso logico-giuridico seguito dai giudici di merito però resta e, col doveroso rispetto la motivazione della Suprema Corte, contrariamente alle tante voci a favore, appare in realtà scarna e approssimativa.
La mancanza di contesto della frase “incriminata”
La frase del dirigente (scritta? Pronunziata e poi messa per iscritto?), ha un “prima” e un “dopo” ma mentre del dopo sappiamo che è avvenuto il licenziamento, del prima, non conosciamo né il contesto né se si tratti di un’affermazione fatta in un momento di stanchezza o in risposta ad una provocazione, o faccia seguito ad una più ampia discussione col vertice aziendale sulla quale non vi era condivisione da parte del dirigente. Contesto sul quale i Giudici hanno evidentemente ritenuto di non indagare.
Non sappiamo nemmeno se, al contrario, si tratta di un’affermazione meditata dal dirigente per predisporsi una tutela difensiva in caso di licenziamento. Non sappiamo quindi chi sia stato il “provocatore”, chi il “provocato” né quale fosse il motivo del diverbio (o della provocazione). Sembra certa però che la frase nasca nella dimensione del recinto aziendale ed all’interno di un confronto tra il manager ed il suo imprenditore. Non viola quindi l’obbligo di riservatezza.
Si pone qui in evidenza che il dirigente, esprimendo senza remore il suo dissenso, ha in realtà manifestato, come spesso in concreto avviene, una premura ed un segno di affezione e di fedeltà alla sua azienda, al punto da assumersi consapevolmente il rischio di un aspro confronto e di un apprezzamento negativo sulle scelte dell’imprenditore.
Si tratta quindi di una decisione coraggiosa, che riporta nell’ambito della “lealtà aziendale” quella che spesso viene confusa con la “fedeltà all’imprenditore”. Lealtà legittima se resta circoscritta al rapporto interno tra manager e imprenditore e non si traduce, invece, in un “remare contro” alle scelte di quest’ultimo, che vanno comunque rispettate.
Certamente l’azienda non è una proprietà del manager ma dell’imprenditore, che ha diritto anche di far scelte sbagliate ma in quest’ambito vanno ricordati i diversi ruoli che la dottrina – e la giurisprudenza – attribuiscono alle due figure del rapporto di lavoro.
Ruoli e responsabilità di imprenditore e manager
Mentre all’imprenditore fa capo la responsabilità sociale – che si manifesta in scelte che possono comportare un sacrificio delle attese sociali o un sacrificio economico ai fini sociali – al manager fa capo il diritto-dovere di attuare e proporre all’imprenditore scelte diverse da quelle prospettate – laddove le ritenga maggiormente volte ad assicurare lo sviluppo dimensionale, la crescita e la produttività dell’impresa-.
Se così non fosse, la figura del manager intesa come “alter ego dell’imprenditore”, non avrebbe alcun senso di esistere. Un manager silente ed obbediente non è utile né fa il bene dell’impresa, anche se, tendenzialmente, si assicura una più lunga permanenza nel ruolo. Del resto, il ruolo del dirigente è descritto proprio nel primo articolo del contratto collettivo (più volte richiamato nell’ordinanza), che lo definisce come colui che “ricopre nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale […] al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell’impresa”.
Quindi la giustificatezza del licenziamento, nel caso specifico, se attribuibile a quest’unica frase, non sembra ravvisarsi sotto alcun profilo. Non si rileva nella violazione dell’obbligo di fedeltà, non si confonde col diritto di critica (come del resto è stato riconosciuto dagli stessi Giudici), ma neppure col dovere di condividere ogni scelta dell’imprenditore, fermo restando il suo dovere di attuarla, una volta che la scelta sia divenuta operativa, rispettando anche le scelte ritenute sbagliate.
In conclusione la giustificatezza del licenziamento in questo caso non può essere rilevata da una frase fine a se stessa, avulsa dal contesto e dalle ragioni di entrambe le parti.
Sarebbe stato doveroso dunque (e forse più corretto) indagare sull’esistenza di una giusta causa di licenziamento nei confronti del manager.
Credit by: Antonio Tarzia – Bollettino ADAPT
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