NASPI: DUE SENTENZE RICONOSCONO IL DIRITTO DEI DETENUTI A PERCEPIRLA
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- On Febbraio 7, 2024
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Si tratta della recentissima sentenza della Corte di Cassazione del 5 gennaio 2024 e di quella della Corte di Appello di Catanzaro del 28 novembre 2023.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 396 del 5 gennaio 2024, ha affrontato il tema del riconoscimento della NASpI ai lavoratori detenuti, rigettando il ricorso presentato dall’INPS avverso la decisione della Corte d’Appello di Torino che confermava tale diritto.
Recentemente, la questione è stata affrontata anche dalla Corte di Appello di Catanzaro nella sentenza n. 1125 del 2023.
Cos’è la NASpI
La NASpI, “Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego”, è disciplinata dal d. lgs n. 22 del 2015.
Si tratta di un’indennità mensile di disoccupazione riconosciuta ai lavoratori subordinati che hanno perso involontariamente la propria occupazione.
L’indennità in commento non può essere riconosciuta ai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato della pubblica amministrazione ed agli operai agricoli.
La sentenza della Cassazione
Con sentenza n. 396 del 5 gennaio 2024, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dall’INPS per la riforma della sentenza della Corte d’Appello di Torino del 29.07.2020, con la quale la Corte territoriale aveva ritenuto sussistenti tutti i requisiti previsti dalla legge per il riconoscimento dell’indennità NASpI, nei confronti di un detenuto che aveva prestato attività lavorativa intramuraria nella casa circondariale, alle dipendenze del ministero della Giustizia fino alla sua scarcerazione per fine pena.
Le motivazioni dell’INPS
L’Istituto Nazionale di Previdenza, con un unico motivo di ricorso, ha dedotto la violazione degli articoli 1, 2, 3 e 7 del d.lgs. n. 22 del 2015, ritenendo che la Corte d’Appello avesse trascurato le peculiarità del lavoro intramurario e la sua non assimilabilità al lavoro subordinato, oltreché la “non involontarietà” dello stato di disoccupazione conseguente alla cessazione del rapporto per fine pena.
L’INPS ha sottoposto, dunque, all’attenzione della Corte di Cassazione due distinte questioni: la prima relativa alla qualificazione del lavoro intramurario, ovvero se possa considerarsi quale lavoro subordinato e se allo stesso possa essere riconosciuta la ordinaria protezione previdenziale; in secondo luogo, si chiede se la disoccupazione che consegue alla fine del trattamento penale possa essere considerata involontaria e se consenta la tutela previdenziale richiesta.
Le motivazioni della sentenza
Il ricorso, a parere della Suprema Corte, è infondato.
L’excursus normativo e giurisprudenziale richiamato in sentenza evidenzia come, nel corso degli anni, il lavoro intramurario ha perso i tratti di specialità che lo caratterizzavano, con il conseguente riconoscimento, in favore del lavoratore detenuto, dei diritti “spettanti a tutti i lavoratori in genere e delle azioni a tutela innanzi al medesimo giudice del lavoro”. Ed infatti, “nonostante le peculiarità della disciplina di alcuni istituti derivanti dall’interferenza del trattamento penitenziario, la causa tipica del rapporto di lavoro – costituita dallo scambio tra attività lavorativa e remunerazione- resta centrale anche nel lavoro intramurario: anche qui, invero, la funzione economico sociale principale del rapporto lavorativo va vista nello scambio sinallagmatico tra prestazione lavorativa e compenso del lavoro”e in ogni caso “il fine rieducativo del lavoro dei detenuti non influisce sui contenuti della prestazione e sulle modalità di svolgimento del rapporto”.
La Corte, sottolinea come “può ben affermarsi, anzi, che il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi”.
Pertanto, il rapporto di lavoro del detenuto alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria va considerato come un ordinario rapporto di lavoro, nonostante le particolarità della regolamentazione normativa.
Inoltre, dall’esame della disciplina generale e dei singoli istituti emerge che “il lavoro intramurario è equiparato al lavoro subordinato anche ai fini previdenziali ed assistenziali, e che anzi le norme speciali previste sono norme di maggior favore”. Tale conclusione trova conferma “anche dalle indicazioni in materia che derivano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che si è occupata della previsione della Convenzione EDU che consente il lavoro carcerario purché si tratti di lavoro “normalmente richiesto” alle persone in stato detentivo (art. 4 Convenzione)”.
Con riferimento alla seconda questione sollevata dall’INPS e relativa al requisito dell’involontaria perdita della propria occupazione ai fini del riconoscimento della misura di sostegno al reddito, la Corte ha affermato che “la cessazione per fine pena del rapporto di lavoro intramurario svolto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria dà luogo ad uno stato di disoccupazione involontaria rilevante ai fini della tutela previdenziale della NASPI”.
QUI LA SENTENZA COMPLETA
La sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro
La Corte di Appello di Catanzaro nella sentenza n. 1125 del 2023 è intervenuta su una questione analoga.
Con sentenza del 3 maggio 2021, il Tribunale di Cosenza aveva accolto il ricorso con cui un detenuto aveva chiesto, essendo in possesso di tutti i requisiti lavorativi e contributivi di legge, di accertare il proprio diritto a percepire la NASPI.
In sede di appello, l’INPS chiedendo la riforma della sentenza impugnata, ha richiamato quanto affermato dalla Cassazione penale nella sentenza n.18505/2006 sulla “non equiparabilità del lavoro prestato dal detenuto all’interno dell’istituto penitenziario con quello prestato all’esterno, alla dipendenza di soggetti terzi. Facendone conseguire che la cessazione di detta attività lavorativa per turnazione fra detenuti sarebbe, del pari, non equiparabile al licenziamento e non darebbe, dunque, diritto ad alcun trattamento di disoccupazione”.
La Corte d’Appello ha rigettato l’appello ritenendo che “la sola nozione costituzionalmente accettabile di disoccupazione involontaria” non consente di “dubitare che in essa si trovi il lavoratore detenuto, già dipendente dell’amministrazione penitenziaria, alla cessazione del rapporto di lavoro determinata dalle turnazioni previste dall’art.20 L.354/75 e che, quindi, in presenza degli altri requisiti di cui all’art.3, lett.b) e c), d.lgs.22/2015, ad esso spetti il diritto alla Nuova Prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego di cui all’art.1 della stessa legge”.
Ed infatti, “Non vi è fondamento normativo alla tesi sopra ricordata (v. supra prg.7) e secondo la quale, ai fini del riconoscimento delle tutele di legge, “involontaria” sarebbe la disoccupazione solo quando “conseguenza di eventi riconducibili all’iniziativa del datore di lavoro ed alle sue prerogative imprenditoriali. […] potendosi ben affermare, parafrasando la citata sentenza n.158/2001 del Giudice delle leggi, che la Costituzione sancisce chiaramente (art. 35) che la Repubblica tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” e (all’art. 38, secondo comma) che qualunque lavoratore ha diritto a che “siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle [proprie] esigenze di vita in caso di (…) disoccupazione involontaria”.
Pertanto, stante la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 3, d.lgs.22/2015 ovvero la titolarità di almeno tredici settimane contributive nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione e di almeno trenta giornate lavorative nei dodici mesi precedenti l’identico periodo, la Corte d’Appello di Catanzaro ha rigettato l’appello e confermato la sentenza impugnata.
QUI LA SENTENZA COMPLETA
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